Il catalogo del Museo delle Genti di Montagna di Palazzuolo


La trebbiatrice decomponibile

Il territorio montano rendeva molto complesso l’uso di trebbiatrici tradizionali, pertanto un artigiano locale
Donato Donatini, ebbe l’idea di costruire e brevettare una trebbiatrice decomponibile per consentirne il
trasporto anche nelle zone più impervie. Le varie parti venivano poi assemblate sul posto per consentire la
trebbiatura. Furono costruiti meno di dieci esemplari di questa macchina, di cui l’ultimo sopravvissuto al
tempo è esposto nella sala al piano terra del Museo.


Il mulino – “Molè”

Storicamente adibito alla macinazione di cereali e castagne, il mulino è uno strumento che produce un lavoro meccanico derivato dallo sfruttamento di una forza. Il mulino ad acqua, come l’esemplare conservato nel Museo, era posto in prossimità di un torrente e collegato ad esso tramite la gora, che portava l’acqua fino al ritrecine (turbina idraulica). 
Il movimento della turbina veniva trasmesso attraverso una serie di ingranaggi alle macine che, muovendosi l’una sull’altra, frantumavano il seme fino a produrre la farina.
Questo è il mulino della “Casaccia” ed è composto da due posti di macinazione, con una macina si macinava il grano, con l’altra si macinavano castagne secche, granturco e biade varie per il bestiame. Dal catasto di Palazzuolo del 1428 risulta la presenza di un molino cooperativo con 54 soci, che ha lavorato fino al 1980 senza alcuna modifica.
Donato da Luciano Donatini.


La produzione agricola

Il territorio di Palazzuolo era diviso in circa 350 unità poderali che fino al 1950 erano praticamente l’unica fonte di reddito per una popolazione di 3.500 abitanti circa. Il podere era una piccola azienda agricola con una superficie media di 30-40 ettari di cui circa la metà era costituita da bosco deciduo. Dell’altra metà, alcuni ettari erano coltivati a castagneto da frutto, un paio di ettari a querceto e ceppaia, qualche “ronco”(piccolo appezzamento di terreno seminativo “rubato” al bosco), il resto era costituito da terreni seminativi. Il terreno seminativo veniva diviso in due annuali (anvèl) : una metà veniva lavorata durante l’inverno ed a primavera il terreno veniva seminato con granturco, patate, fagioli, avena, vecce, cece, orzo ecc. (le cosiddette colture primaverili), l’altra metà veniva lavorata nei mesi di Agosto e Settembre per poi seminare il grano con le prime piogge di Ottobre. Il rapporto di conduzione del podere fra padrone e contadino era di “mezzadria”, quindi i prodotti v enivano divisi a metà. Al proprietario del podere spettava la manutenzione delle strutture (casa, stalla, fienile, seccatoio ecc.), al contadino la conduzione dell’azienda. Alcuni attrezzi per la lavorazione della terra (zappa, vanga, vomere, rastrello) venivano forniti in “affitto” dal fabbro, che si impegnava a garantirne la manutenzione gratuita in cambio di una parte del raccolto (generalmente grano) a fine stagione.
In questa sala sono esposti alcuni dei principali attrezzi utilizzati per la lavorazione dei terreni seminativi e del raccolto, oltre che gli arnesi e le strutture relativi alla castanicoltura.


Il taglio del bosco ceduo e la produzione del carbone vegetale

Verso i primi anni del 1700 si è incominciato a fare uso razionale del bosco, trasformandolo da vergine a ceduo. Il bosco di querce, di cerro, di carpine o di castagno, veniva regolarmente tagliato ogni 12-14 anni a “raso”, ovvero lasciando solo una “matricina” (pianta da seme), ogni 10-12 metri. Invece il bosco “selvatico” (faggio) veniva tagliato ogni 5-6 anni, con taglio detto a “sterzo” solo per le piante di pezzatura maggiore. Il bosco domestico veniva tagliato nei mesi invernali, il faggio in primavera e in estate. Una volta tagliata, la legna veniva accatastata intorno alle “piazze carbonaie” che servivano per la cottura del carbone, avevano un piano circolare di 20-50 metri quadrati ed erano sparse nel bosco a distanza regolare lungo i sentieri e dovevano avere un piano perfetto, in quanto se ci fossero stati rialzi il carbone si sarebbe bruciato diventando cenere, se ci fossero stati affossamenti non si sarebbe cotto. Spianata la piazza, il carbonaio piantava al centro 3 pali formando un piccolo triangolo, a cui venivano legati 2 cerchietti di legno che formavano un cilindro che costituiva il camino della carbonaia. Intorno al camino il carbonaio appoggiava la legna con la parte più grossa rivolta verso il basso e finita la catasta si preparavano con la zappa le “palastre” (zolle di terra erbosa) con le quali si ricopriva la parte bassa della carbonaia; sulla parte alta della carbonaia venivano posate delle foglie umide ed il tutto veniva coperto con terra molto fine. Si lasciavano aperti la bocca del camino al centro ed alcuni buchi (“cagnoli”) quali prese d’aria ai piedi della carbonaia. Si accendeva il fuoco sulla bocca del camino e via via che la legna bruciava, la brace cadeva in fondo al camino, il carbonaio la rimboccava con altra legna fino a quando il camino fosse pieno di brace. Con un bastone appuntito apriva alcuni buchi detti “fumaioli” nella parte alta dall’alto verso il basso : governato dal carbonaio e regolato da cagnoli e fumaioli, il fuoco piano piano cuoceva la legna trasformandola in carbone.


Mezzi di comunicazione

In questa sala è affrontato il tema delle comunicazioni, concrete e simboliche, sempre difficili, non solo legate al lavoro. Gli zoccoli avevano la suola chiodata e la ruota di legno della carriola si rappezzava con il ferro di una vecchia serratura. La fatica del trasporto a spalla di legna e carbone era notevole, così come quella dei merciai ambulanti che si spingevano fino ai casolari più sperduti offrendo aghi, filo, forbici, bottoni, fazzoletti in cambio di uova, formaggi, lana, funghi secchi. Sono esposti anche i bastoni da passeggio ed è presente un’evocazione delle scampagnate, diverse per ceto, che partendo dal paese avevano come meta prati e crinali anticipando, con asini, fagotti e fiaschi, la pratica del trekking lungo i percorsi marcati oggi dai segni bianchi e rossi del Club Alpino Italiano. Completano il quadro dei mezzi di comunicazione che appartengono al passato i fogli volanti dei cantastorie, venduti sulle piazze e per le fiere, e le cuffie della radio a galena, apparecchio di improbabile fedeltà, collegato ad un cristallo di solfuro di piombo ed alla struttura in ferro del letto di casa.


Il segantino e il falegname

Fra i molti mestieri artigianali praticati nelle nostre zone un posto importante era occupato dal segantino, che si occupava della preparazione del legname da costruzione e per falegnameria. Si trattava prevalentemente di castagno, ma anche di quercia, cerro e noce.
Le squadre di segantini erano composte da tre uomini che preparavano il legname direttamente nel bosco. I tronchi venivano “squadrati”, poi si facevano delle tacche nelle testate per indicare lo spessore voluto, quindi si utilizzava un filo di lana imbevuto di acqua e fuliggine che veniva teso tra 2 tacche, tirato e fatto battere sul tronco in modo che la fuligine lasciasse un segno lungo tutto il tronco per indirizzare il taglio (battere i segni). Quindi il tronco veniva drizzato (modalità di taglio detta a piantò) o posato e legato su un altro tronco che per metà sporgeva da un muretto (modalità di taglio detta a caval). In entrambi i casi veniva segato con una grossa lama di acciaio dentata montata su un’armatura di legno (sega fondena) manovrata da due uomini. Essendo le nostre zone quasi prive di strade, i tronchi venivano segati sul posto ed i tavoloni venivano trasportati a valle a dorso di mulo. Il legname veniva poi accatastato all’aria aperta coperto per proteggerlo dall’acqua e dal sole, lasciato stagionare per anni prima di essere usato. Tutte le famiglie dei falegnami preparavano direttamente il legname necessario alla loro bottega.


Il fabbro

Da notizie fornite direttamente da un ex fabbro del paese, Edmondo Visani-Scozzi, di famiglia di fabbri da molte generazioni, un importante compito di questa figura era fornire in “appalto” ai contadini alcuni attrezzi per la lavorazione della terra. Il fabbro forniva gli attrezzi, le cosiddette “armi”, quali zappa, vanga, vomere, rastrello che costruiva direttamente e che marchiava nel portamanico con dei simboli propri di ciascun fabbro. Il contadino che prendeva gli attrezzi in affitto pagava in natura a fine stagione con parte del grano del raccolto. Al fabbro spettava la manutenzione  degli attrezzi stessi, la loro riparazione, rinferratura e assottigliatura.


L’angolo del calzolaio

Le scarpe disponibili erano tutte di fabbricazione artigianale da parte del calzolaio. Tuttavia  la parte più consistente del lavoro del calzolaio erano le riparazioni, visto l’alto costo di fabbricazione. Le scarpe infatti si risuolavano e si rattoppavano diverse volte, e le si  rinforzava nella suola e nei tacchi con dei chiodi. Nelle famiglie, specialmente tra i figli che crescevano, le scarpe venivano passate dal più grande al più giovane,  mentre le scarpe nuove si usavano con parsimonia:  a quei tempi era facile incontrare povera gente che portava le scarpe legate al collo e camminava a piedi nudi per non consumarle. La bottega del calzolaio era impregnata di tanti odori: colla, pece, grasso cromatina e vi si trovavano arnesi quali le lesine, i trincetti, le tenaglie, i martelli e le numerosissime forme di legno. A questi si aggiungevano le setole, gli spaghi, la pece, la cera e la colla. La bottega era un luogo d’incontro per scambiare quattro chiacchiere col calzolaio, che parlava senza mai distogliere lo sguardo dal suo lavoro. Nel caso di realizzazione di un paio di scarpe su misura, l’artigiano inizialmente definiva la sagoma del plantare, poi prendeva con una cordicella la circonferenza del collo del piede in prossimità delle dita. Dopo avere preso le misure necessarie ed avere concordato la forma e il colore del pellame, provvedeva al taglio e alla cucitura ed iniziava il lavoro fissando alla parte inferiore della stessa forma la soletta interna delle scarpe. Aggiungeva, infine, la tomaia che doveva essere ben tesa ed unita alla soletta con dei piccoli chiodi.


La casa

La casa colonica era posta quasi sempre al centro del terreno seminativo, costruita con sassi scavati sul posto e murati con malta in muri robusti. Si elevava generalmente su due piani: al piano terreno si trovavano le stalle per il ricovero del bestiame, la cantina e una stanza da lavoro e per il ricovero degli attrezzi. Al primo piano le stanze per la famiglia contadina erano costituite da una grande cucina con un focolare, alcune camere, una stanza per il granaio e spesso una per il telaio (a volte quest’ultimo era sistemato in camera da letto). Nell’entrata c’era quasi sempre un portichetto ed il forno per cuocere il pane. Intorno alla casa c’erano alcuni stalletti per il ricovero degli animali da cortile, ed un seccatoio per le castagne. L’aia in parte lastricata serviva per la trebbiatura, per “battere” le piante dei cereali ormai maturi, stenderli al sole e per togliere ogni eventuale residuo di umidità prima di ammassarle nel granaio.Vicino all’aia c’era una grande capanna che serviva per le necessità dell’aia stessa e per il ricovero degli attrezzi. A valle era scavata una fossa che serviva da letamaia e nelle vicinanze vi era quasi sempre una sorgente d’acqua, raramente un pozzo artesiano. Uniche strade di accesso erano le mulattiere o le strade carrabili con barroccio trainato dai buoi.


Il telaio

Il telaio in legno era presente in molti poderi e veniva utilizzato per tessere prevalentemente la canapa che
veniva prodotta nello stesso podere, in genere solo per soddisfare le esigenze della famiglia. I telai presenti
nelle case coloniche dell’appennino erano telai orizzontali a pettine e avevano generalmente dimensioni di
circa 2 metri di lunghezza e 1.5 m di larghezza. La tessitura avveniva con l’uso di una spoletta di legno e
consentiva di ottenere pezze di tessuto di circa un metro di larghezza. Non era raro tuttavia trovare anche
telai di dimensioni minori.
Il telaio presente in museo è stato usato fino agli anni ’50 e proviene da Badia di Susinana.


L’allevamento del bestiame

L’allevamento del bestiame era una delle attività principali nell’economia del podere che allevava un numero di bovini proporzionato alle sue esigenze ed alla quantità di foraggio che poteva produrre. La razza più diffusa era la Romagnola, ideale per il pascolo nelle zone in pendenza, in quanto non molto grossa ed agile, adatta a lavori di fatica come il traino del carro e il tiro dell’aratro. Inoltre si riproduceva bene, adatta alla produzione di carni e produceva un po’ di latte. In molte parrocchie c’era la stazione di monta con il toro, il verro ed il becco (maschio della capra) mentre il birro (maschio della pecora) era presente in quasi tutti i poderi. 

Tutti i poderi avevano un gregge di 20-30 pecore in base alla quantità di pascolo che avevano a disposizione (“pastura”), queste restavano al pascolo tutto l’anno ed erano rinchiuse nella stalla solo di notte o quando c’era la neve e producevano agnelli, lana e un po’ di latte. Inoltre tutti i contadini avevano un piccolo gregge di capre, buone produttrici di latte e che partorivano 2 o 3 capretti per parto; anch’esse restavano al pascolo quasi tutto l’anno. Ogni podere aveva poi il ciuco, che veniva usato per il trasporto di materiale, e si allevavano inoltre animali da cortile (tacchini, anatre, galline, conigli, piccioni) che venivano governati con biade. Il maiale era allevato in tutti i poderi, in cui si tenevano un paio di fattrici che due volte l’anno venivano portate alla monta, producendo 6-10 maialini per parto. Questi venivano venduti all’età di 40 giorni a mercanti Emiliano-Romagnoli; solo un paio di nati nei primi mesi dell’anno venivano allevati, lasciandoli liberi di pasturare nei castagneti e nei boschi e infine rinchiusi nello stalletto per l’ingrasso, che durava 30-40 giorni e durante il quale erano alimentati a patate e farina di granturco e crusca; il maiale veniva poi spartito con il padrone e la carne conservata secca doveva bastare per tutto l’anno. Fino ai primi del ‘900 i maiali che si allevavano erano di pelo nero, in seguito vennero le razze a pelo bianco.


La cantina – Nel granaio

Fino agli anni ’50 esisteva sui nostri molti una modesta produzione di uva da vino. Quando l’uva veniva vendemmiata era ammostata direttamente nel campo, solitamente da ragazze e ragazzi che a piedi nudi la pestavano. Il mosto così ottenuto veniva poi vuotato nella castellata collocata sul carro al margine del campo. La castellata era una grande botte di legno di castagno o di querce, costruita dai nostri artigiani con una precisione quasi incredibile. La castellata chiamata “il carro” conteneva 936 kg di mosto; la mezza castellata , o “mezzo carro”, ne conteneva 468 kg. 
In questa sala sono esposti una mezza castellata, una pidria ed un bigoncio. Inoltre qui troviamo oggetti che richiamano l’importanza del conservare, distribuire e consumare, lungo le stagioni, i frutti dei diversi raccolti : dalla farina di marrone al mais, dal grano alle patate.


La caccia

La caccia era un’attività a cui si dedicava gran parte della popolazione maschile, per hobby o per necessità. I sistemi di cattura degli uccelli erano diversi: la caccia con i lacci o “lacciaia” e la caccia con la trappola ad archetto. Le caccia con il fucile poteva essere effettuata con il cane in  o in appostamento fisso (capanno). Il sistema più efficiente per la caccia agli uccelli era tuttavia il “paretaio”. Si trattava di un appostamento costruito in un valico e consisteva in un capanno di appostamento circondato da  un prato posto al centro del poggio circondato da due boschetti, attorno ai quali erano scavati profondi fossati in cui si nascondevano grandi reti di canapa fissate a staffe di legno e comandate da molle e pesi. A terra sul prato venivano posate le gabbie con gli uccelli da richiamo. Quando uno stormo di uccelli si avvicinava al passo, quelli rinchiusi nelle gabbie cominciavano a cantare invitandoli a posarsi sul boschetto; una volta che il branco si era posato il cacciatore tirava la leva di comando e le reti scattavano coprendo il boschetto e intrappolando gli animali. Infine si praticava la caccia agli animali nocivi con “tagliole” o “cassette trappola”.

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